Primo ottobre duemilaventidue. Quarantadue giorni dal tuo atterraggio. La parola non è scelta a caso, ma conseguente a quanto sentito dall’ostetrica in sala parto. Che poi “sala parto” sì, ma per andare dove?
A ogni modo, parto a razzo. Parole sue. Avevi particolarmente fretta di uscire.
Quarantadue giorni, dicevo. Potrei snocciolare un elenco di conseguenze dal tuo impatto a terra che comprenderebbero
- Privazione del sonno (non troppo, benedetta tua madre)
- Assenza di negoziazione
- Effluvi vari e eventuali
- Distruzione, scomposizione e spruzzo di qualsiasi piano orario/giornaliero/settimanale/mensile…
- Possessione emotiva e apparentemente ingiustificata di quei sentimenti buoni in via di estinzione in questi difficili – difficilissimi – giorni.
Sto scrivendo mentre tua madre di dondola cercando di placare il malessere digestivo che ti accompagna dopo le poppate.
Non parli, ti muovi in modo scomposto, spesso mi scorreggi sulle mani, ma non posso fare a meno di pensare a quanto tu stia egemonizzando quel briciolo di mio emotivo rimasto.
E’ vero, qui ho sempre scritto poco, poi sempre meno, poi per niente e ora – fosse possibile -, ancora di meno.
Ma nell’essere esausto così come felice, non potevo non lasciare almeno un’impronta di questa cosa tanto piccola quanto enorme che da quarantadue giorni mi trovo in casa.
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