Passare nell’esplosione storica di questa città è un’esperienza a tratti mistica. Li vedi sparsi un po’ dappertutto, ruderi e mutilati architettonici di un’epoca passata, antica. Eppure puoi percepire ancora la sua imponenza nelle cose rimaste e grazie al cielo custodite. Sono lì, trasudanti la loro furbizia e pronta a sbattertela in faccia, con quell’alone di mistero pronto a dirti:

Potete sondarmi,
mi potete studiare,
ma fino in fondo
non mi potrete mai capire.

Una visione del tutto personale dell’agglomerato fanta-ipnotico raccolto attorno all’Altare della Patria, alias la macchina da scrivere sito in Piazza Venezia che per una settimana mi sono ostinato a chiamare Porta Venezia manco dovessi andare in Corso Buenos Aires a fare spesa per Natale.
Nel mio immaginario fanciullesco, il diciotto è sempre stato il numero preferito. Perché viene dopo il diciassette, numero per tradizione infausto, quindi dopo il brutto pensavo – e credo di pensare tutt’ora – dovesse per forza venire il bello. Altrimenti si spezza l’equilibrio, il livello del mare si alza e i bovini (gli erbivori in genere) non mangiano più l’erba, noi non mangiamo più i bovini e un mondo di vegetariani non lo sopporterei davvero. Il tofu mi fa cagare, per usare un francesismo.

Il motivo per cui mi trovavo nei paraggi questa mattina – dopo tutta questa pioggia, una Grandiosa Mattina di sole dalla luce irriverente e dal calore timido – era per chiudere un cerchio iniziato parecchi anni fa. Almeno dare un’animazione ed un impatto visivo a parole scambiate nelle epistolari elettroniche.
Mi sono trovato a dover raggiungere una chiesa attribuita al santo omonimo, con quell’inquietante appellativo di “in carcere”, scoprendo quanto possa mettere in difficoltà il personale di pubblico servizio sparso un po’ dovunque, come muschio sul lato nord dei tronchi d’albero nei boschi, la richiesta di una chiesa poco commerciale. Deve esistere una sorta di sistema preferenziale.

Comunque, al quindicesimo vigile – e dopo quattro carabinieri – riesco ad ottenere una vaga ipotesi del luogo. Ovviamente per esclusione.
Se di là c’è San Pietro in carcere, di là san […] e poi San (erano splendidi/e mentre pensavano a voce alta) eh, ora che ci penso, c’è una chiesa laggiù, ma non so come si chiami. Prova…

Appunto, un bricolage che parte dal 1200, si evolve nel 1500 e si umilia definitivamente nel 1800. Ci sta, è la chiesa del santo omonimo, con l’immancabile gazebo come altare tanto in voga nelle chiese romane.

Dentro la chiesa è vuota. Faccio un giro tra un affresco medievale, raffigurazioni di poco conto ed una via crucis decisamente moderna – a quel punto sono stato colto dal desiderio di trasferirmici – ma della persona in oggetto nemmeno l’ombra.
Scorgo poco davanti all’altare delle scale che portano nei sotterranei con il cancelletto aperto e nessun segnale di “Non pensarci nemmeno, lì ci coltiviamo una nuova civiltà autoctona e mangiauomini ed è l’arma segreta del Vaticano contro gli oppositori del mondo”, ma lì per lì sono stato colto da strani sensi di colpa. Non chiedetemi il perché: forse avevo davvero immaginato l’alien pronto a prendermi e a far di me pappetta verdognola.

Faccio in tempo a girarmi e a vedere una piccola figura entrare, raggiungere un luogo ben preciso della chiesa, trafficare un attimo, dirigersi verso la porta della sagrestia ed aprirla.
“Te serve qualcosa?” un accento spagnoleggiante ed un viso da personaggio di Dumas, un individuo che poi scoprirò essere il sagrestano stesso, tanto abile a muoversi nella struttura, mi assicura che non ci sono problemi e mi precede sulle scale alla ricerca della guida che te porta nei sotterranei (cit.).

Una delle cose che più apprezzo è vedere una persona parlare di quello che fa con l’energia e l’espressione di chi ama quello che fa.
E’ alle prese con un uomo oltre i cinquanta e, a dire il vero, è alle prese con gli scavi in cui ci troviamo. La sua parlata è veloce e cita motivazioni relative ad ogni punto del passaggio con la scioltezza di chi legge una didascalia. Il suo sorriso al mio arrivo è stato tanto solare al punto di disarmarmi. Così scopro che “in carcere” è un’attribuzione errata. Devono aver dato una destinazione sbagliata a quelle che potevano suggerire delle celle, ma che in realtà avevano a che fare con degli scambi monetari (?) anche se non sono sicuro di aver capito bene. Ero ancora in sospensione sulle parole.

Oltre ai convenevoli, all’abbattimento poetico relativo ai materiali “non è marmo. Sembra, ma è solo dipinto”, c’è stata quel tipo di conversazione fatta di agio che mi mancava da tempo.
Non può capire cosa voglia dire per me riuscire a mantenere quell’agio senza artificio. Mi prendo la licenza poetica, ma non ho voglia di spiegarlo ora: sono un po’ stanco.

La parte più spettacolare doveva ancora venire. Ovvero: come raggiungere la metro per tornare a casa, attraverso un percorso che dalla macchina da scrivere porta oltre il colosseo, passando attraverso una città e vedendola com’era una volta.
Accompagnato da una custode, m’è venuto questo in mente, passando tra colonne e borghi non più esistenti e basiliche come luoghi di legge e non di religione e rivelazioni di “stendardi” e scettri ritrovati. Ho appreso la diatriba Costantino/Massenzio, io che di storia romana so davvero poco-nulla, ed ho trovato l’analogia tra gli ultras e l’attaccamento a sciarpe e striscioni con gli eserciti ed i loro di stendardi. Un disonore da togliere il sonno.
Scopro fin dove il borgo si spingeva e perché il colosseo è mutilato solo in quel punto.

Così quel tempo è sembrato davvero poco, ma non m’importa, corroborato dalla giornata e da tutte quelle cose nuove. Quegli occhi nuovi, effetto non provato da tanto tempo.

Ho concluso pranzando a pesce crudo, con la raccomandazione dei proprietari di quel ristorante a tornare la sera, con più calma, signore. Tornerò.
Per ora, lasciatemi riprendere un attimo da quello scuotimento mattutino cui ero venuto a mancare, davvero per troppo tempo.

Al lavoro, parlando della piacevole passeggiata un collega mi fa segno di aspettarlo un attimo. Torna poco dopo con la sua chiavetta usb in mano: Nicola, guarda questa foto. E’ mio nonno. All’epoca non aveva lavoro e fu preso proprio per i lavori di smantellamento in quel posto. Brutto affare, lo so, ma aveva bisogno di soldi.
Così ecco qui la foto d’epoca.

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Lascio la canzone di Natale. Chiedo scusa se non ho addobbato il sito, ma non sono ancora riuscito a trovare una palla da addobbare con gli arbre magique. Spero di farcela per mercoledi.

“Nic, ti sta cellulando il cellulare”. certe volte Marco è davvero l’uomo in più.

Per errori grammaticali, lessicali, di battitura, ho scritto di getto. Sono stanco.