Per l’ennesima volta la celeberrima Filini Organization si è messa in moto.
Ancora una volta, nulla di programmato, tanto di improvvisato e quella classica “botta-di-culo” caratterizzante le nostre uscite fuori porta.

Capitare nella città della sorella – in cui ci vive ormai da diversi mesi – solo ora può sembrare strano, ma effettivamente non c’era mai stato un valido motivo per poggiare i piedi in quei lidi.
Questa volta ci siamo riuniti noi – fratelli – e siamo stati a vedere che cosa sarebbe potuto saltar fuori.

Quando arriva il primo pomeriggio, la faccenda si disegna già per versi inusuali.
Per un filomisantropo, passare tra moltitudini di persone dovrebbe sortire quanto meno un effetto simile al colpo di nausea dopo l’ennesimo sorso di whisky: macché.
Accodati ad un lungo corteo di giovani tambureggianti e danzanti, abbiamo percorso un lungo viale prima di fare tappa finale in piazza maggiore.

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Ho visto ancora cose che mi mancavano.
Andavo dimenticando l’effetto della bolgia festosa, dei sorrisi in faccia alla gente, del “nessun-pensiero”, come fossi dentro la “Festa dei Folli” di Hugo nel celebre romanzo parigino.

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Ce n’era per tutti i gusti: giravi lo sguardo da una parte e finivi travolto dai ritmi di tanti percussionisti perfettamente sincronizzati nelle loro ritmiche tribali. Come cercavi di togliere lo sguardo venivi rapito da saltimbanchi di ogni genere, dagli equilibristi a gruppi di body art, jazzisti da strada tanto da ritagliare un angolo d’effetto New Orleans (pre-disastro) un po’ più nostrano.

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Scambiar due battute in quello che risultava essere un ibrido tra calcio e pallavolo – realizzando quanto in Italia, piaccia o non piaccia, un pallone riesca a catturare chiunque, dall’apparente pensionato nella pace dei sensi, fino al bimbo che a fatica riesce a reggersi in bipede equilibrio.

Noi tre.
Tre fratelli tanto diversi quanto in grado di sortire nella loro presenza un assortimento di commenti e idee, variegato al punto da far invidia a me stesso.

Suonare un rullante dopo aver chiesto una bacchetta ad un percussionista, e vedere il suo stesso sorriso mentre te la porge e ti “tira-in-mezzo” a tutta la faccenda.

In una semplice parola: FESTA.
…E fanculo a tutto il resto.

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Queste cose – ogni tanto – servono per ricordarmi che basta poco per evadere da tutte quelle piccole cose che durante una settimana soffocata dall’usuale finiscono per influire sul nostro umore.

Ero misantropo, comunque, ma quella gente no. E probabilmente avevano qualche sorta attrattiva verso di me, tant’è che in un modo o nell’altro finivamo dentro qualcosa da fare.
Qualcosa da vedere.

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Ricordando a qualcuno in particolare – che magari leggerà pure queste righe – di un modo di affrontare le cose secondo metodi differenti da quelli usati fino a ieri.
Del modo di portarsi dentro anche tutte quelle cose storte appartenenti ad ognuno di noi e non per questo fare in modo di esaurire, a forza della propria irrequietezza, le persone accanto.
Del modo di tendere la mano.
Con lo stesso metodo raccontare e raccontarsi, togliendo i propri giudizi su quanto si sta dicendo: possono annoiare.
Mettendosi in testa quel mondo fatto di personaggi strani, felici, arrabbiati, danzanti e a volte disperati, usando il tempo per sé stesso nel modo migliore, fare quello che c’è da fare e tenersi da parte quel tempo per sé stessi cercando un piccolo ritaglio di serenità.
Si sia misantropi, filantropi o qualsiasi altro, c’è sempre qualcosa che in cuor nostro sappiamo valga la pena di vedere e rivedere.

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