L’automobilista romano ha come principale passatempo quello di pigiare ossessivamente il pulsante del clacson. Basta una passeggiata lungo i marciapiedi di una strada trafficata, per avere come colonna sonora un accanimento isterico di toni variabili a seconda dei modelli d’auto presenti.
Poi, vivendo l’allegra sinfonia da una vettura ho capito una cosa: alla mente, il classico “beeep” usato nei programmi televisivi per coprire parole di discutibile decoro.

<<beep=clacson>>

“L’anima de’beep!’tua!”, “fan’beep’lo!”, “muoviti figlio di p’beep’ana!”.

Già, perché ogni suonata è accompagnata da auguri di ogni tipo verso questa o quell’altra auto, una sorta di tutti-contro-tutti al limite del delirio collettivo.
La colpa, credo, sia da dare al fatto che l’automobilista romano sia convinto di essere in strada da solo. Il che lo porta, trovandosi in mezzo ad una moltitudine di automobilisti con lo stesso pensiero suo, all’insofferenza generale verso il prossimo.

“…E datte ‘na mossa, fijjo de ‘na mi”beep”tta!!”.

Il povero automobilista, che per sbaglio è costretto ad un cambio di corsia prima di un semaforo, deve sorbirsi una raffica di clacson (insulti) collettivi talmente accaniti da aver suscitato la mia ammirazione per la grande elasticità mentale di ogni singolo guidatore.
Già, perché lì nessuno è esente da errori, lo stesso giorno si è vittima e carnefice dello stesso spettacolo, e tante volte lo si è per abitudine, un po’ come il fumatore che prende una sigaretta per ammazzare il tempo (ed ammazzarsi lentamente), loro pigiano sul clacson.

A Milano sono diversi.
I clacson suonano, ma solo quando qualcuno dorme al semaforo verde.
L’automobilista milanese è ansioso di arrivare. O forse è solo ansioso di stare davanti a tutti.
Le vie della città diventano una sorta di autodromo e spesso la sfida è riuscire ad imboccare la fila di semafori tutti verdi.
L’illuminazione della luce gialla sul semaforo sortisce due reazioni principali, distinte dalla posizione dell’automobile: troppo lontano equivale ad un’imprecazione più o meno pesante – a seconda del livello di studio dell’automobilista – ed una filodisperata rinuncia al passaggio; semaforo mediamente vicino equivale ad uno stato di trance dell’automobilista, che in quel momento viene posseduto dallo spirito di Gilles Villeneuve e mette l’acceleratore a tavoletta al fine di superare l’odioso ostacolo.

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L’automobilista milanese ti suona, ma poi fa finta di nulla, proprio come quello che tira il sasso e poi nasconde la mano.
Quello romano ti suona, e ti agita la mano contro ad indicare “sì, sì, proprio te, fijjo de ‘na mi’beep’tta!”.

A Napoli è diverso.
Sperimentai la guida napoletana quando andai a trovare un collega puteolano nella sua città.
Ricordo che mi venne a prendere all’aeroporto di Napoli con un amico.
Ricordo che la tangenziale di Napoli non era molto trafficata quella sera, ma zig-zagavamo lo stesso tra una corsia e l’altra in vorticosi sorpassi ad una velocità al limite della relatività: ancora un po’ più alla svelta e saremmo tornati indietro nel tempo.
Ricordo – con lo stesso sgomento del momento in cui accadde – di aver conosciuto subito suo padre, e il collega che gli rivolge una frase del tipo: “Pà, lui ha la patente, mi dai le chiavi della macchina?”.
Ricordo che suo padre mi guardò mentre frugava in tasca e mi lanciò le chiavi. Le presi al volo e parve compiaciuto. (“Toh, almeno non è ancora sbronzo o chissaché” deve aver pensato in quel momento).

Comunque, a Napoli ho scoperto l’esistenza della vera guida tridimensionale, non la “fake 3D” di Milano o Roma.
A Napoli dovevo stare attento alle auto che spuntavano come funghi prataioli dopo le copiose piogge autunnali da tutte le parti. Auto a destra, a sinistra, sopra e sotto.

L’automobilista Napoletano suona di rado. Di solito dopo aver realizzato di esser fermo da cinque minuti nello stesso posto senza motivo apparente.

Non so se insultino o meno. Lì non c’è motivo di insultare, poco per volta si passa tutti.
Il tuo semaforo è verde? Naaa, perdita di tempo, se sono più avanti io di te, fammi passare, poi passi tu.
Il ragionamento non fa una grinza. Le auto un po’ meno, visto che di gnocche/grinze se ne vedono a bizzeffe. Non esiste auto non sfregiata, a meno che non sia fresca di concessionario o usata solo dopo le tre di notte.

Ammetto di non aver mai visto in vita mia un’orchestra di targhe così variegata come nella città partenopea: MI-FI-ROma-TA-PA-AL-TR-TN-BA-BO-UD-PC-BG-
BS
eccetera eccetera.

A Monza dormono.
Nonostante Lella si ostini ad avvalere la sua ragione dell’automobilista monzese come sveglio e frettoloso, rimango dell’idea che mi infuse mio zio Sergio: a Monza dormono! Anzi, a Monza doooormono!
Sembra che nessuno abbia fretta, che tutti siano intenti a controllare gli intonaci dei palazzi attorno e se anche sono a dieci centimetri dal semaforo e scatta il giallo, si fermano.

A Mordor poi…
A Mordor l’automobilista dorme, in più è pericoloso, perché riesce ad elaborare delle scelte dell’ultimo momento tanto che azzardate da essere un degno spunto per alcune scene di qualche film ad alta tensione, tipo Mission Impossible (Idiot version).

Non ce l’ho con tutti gli automobilisti cremaschi, però, già che la città è piccina, intasarla come spesso fanno resta un mistero per me. E non parlatemi di “cattiva viabilità”. Grazie a dio abbiamo quattro vie in croce, ma per qualche malsano motivo riusciamo ad impigolarci pure in quelle.

Un aneddoto.
Agosto, la città (Mordor) è praticamente deserta. Al semaforo rosso due signore di una certa età chiacchierano animatamente. Dietro di loro un transit, quei camioncini tipici dei muratori, con a bordo un signore sulla cinquantina.
Scatta il verde e le signore vanno avanti a parlare senza muoversi, tant’è che torna il giallo e, quindi, di nuovo il rosso.
Il signore dietro non suona, si limita a gesticolare fra sé e sé ed a lamentarsi, stando comunque sulla vettura.
Riscatta il verde, ma le due signore, imperterrite, continuano a parlare.
Realizzando la possibilità di un’altra attesa, il signore scende dal veicolo e si avvicina al finestrino della signora al volante, indicandole di abbassarlo, al che le si rivolge con un “Sciüra, la mà fà saì con che culur la g’ha ‘n mént dà pasà…” (Signora, mi faccia sapere con che colore ha in mente di passare…).

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